Gesù esige il silenzio perché sta rivelando nucleo centrale della sua incarnazione: è il Padre stesso che offre suo Figlio, consegnandolo in potere degli uomini. E questo perché si veda tutto il suo Amore che è abbandonarsi fra le braccia della persona amata.
I discepoli non sono in grado di capire questo amore del Signore, i loro pensieri sono troppo lontani da quelli del cielo e hanno paura di chiedere a Gesù un chiarimento (v. 32). Non possono accettare l’idea che Dio abbandoni il suo eletto nelle mani di malfattori.
La mancata sintonia con il pensiero di Cristo conduce inevitabilmente al ripiegamento sulle convinzioni degli uomini. Lungo la via che conduce alla croce, coltivano sogni opposti a quelli di Gesù.
Giunti a Cafarnao, il Maestro li interroga: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?” (v. 33). Gesù è al corrente dell’accesa disputa nella quale, durante il viaggio, tutti si sono lasciati coinvolgere.
Gesù si siede, assume cioè la posizione del rabbino, chiama a sé i discepoli, ordina loro di avvicinarsi, perché li sente molto lontani da sé; e pronuncia il suo solenne giudizio sulla vera grandezza dell’uomo: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti ed il servitore di tutti” (v. 35).
Marco nota che la scena si è svolta in casa che rappresenta la comunità cristiana che deve guardarsi dalla mentalità corrente che badava a gerarchie e delle precedenze. A tavola, nelle sinagoghe, per strada, nelle assemblee si poneva di continuo la questione dell’attribuzione dei posti d’onore. Ai giusti erano assegnate posizioni di prestigio; la gente impura, i poveri della terra andavano emarginati
Per far comprendere meglio Gesù compie un gesto significativo. Prende un bambino, lo colloca nel mezzo, lo abbraccia e soggiunge: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.
Nel brano di oggi i bambini sono indicati come simboli dell’essere debole e indifeso che ha bisogno di protezione e cure. Al tempo di Gesù, come oggi, i bambini erano amati, ma non contavano nulla come persone incompiute. E si comprende cosa voglia dire Gesù. Egli vuole che si ponga al centro dell’attenzione e delle iniziative i più poveri, coloro che non contano, gli emarginati, le persone impure.
Noi viviamo in una società competitiva. L’insegnante si compiace dell’alunno più diligente e preparato, l’allenatore si gloria del più forte dei suoi atleti, ma la mamma segue criteri diversi, è guidata dall’amore e le sue premure sono dedicate al più debole dei suoi figli.
Accogliere il bambino rivela il bisogno di essere accolti dai fratelli della nostra comunità. È nella comunità che occorre diventare gente che non conta, ultimi, che non significa miserabili ma semplicemente “coloro che hanno il cuore aperto a tutti”. (sulla traccia di F. Armellini)
Cerchiamo di tirare una conclusione pratica:
Cosa significa essere ultimi? Non certo arrivare ultimi o nascondersi in fondo. Ma dice una realtà: gli altri sono tutti davanti a me, tutti più importanti di me.
E cosa vuol dire essere servitori di tutti? Non certo proclamare che bisogna servire, facendo magari vibrare di emozione i cuori, sui fatti che sono altri a compiere, come è accaduto in tempo di pandemia. Ma comporta mettersi in gioco personalmente e concretamente. Il servitore è colui che investe tutto nel servizio e non cerca altro. Chi serve è sempre operativo verso chi è a tavola o ha bisogno o chiede o bussa alla porta. Il servitore mangia ma sa anche digiunare; possiede ma è pronto a dare; cura la salute ma per poter servire di più e meglio. Il servitore può aver tutto ma è come se nulla avesse. Ciò che a Lui importa è che l’altro stia bene e sia felice.
San Paolo si preparava a servire così: “So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza” (Fil 4,12).
E poteva testimoniare: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno!” (1Cor 9,22).