26.04.2020 – 3^ di Pasqua: Una Chiesa in difficoltà
, Con 0 Commenti, Categoria: Editoriali, Liturgia,La situazione che il mondo sta vivendo mette duramente alla prova ogni essere umano e quindi, in quanto anch’essa realtà umana, la comunità cristiana. La Chiesa cattolica, in particolare, si trova a dover affrontare una situazione inedita. Forse potremmo esser capaci di saper dire come si affronta una situazione di persecuzione, ma questa prova collettiva, provocata da un agente patogeno del tutto imprevisto, ci lascia disorientati.
Non appena ci si è accorti che anche in Italia il pericolo di contagio era più che reale, abbiamo dovuto sospendere ogni attività pubblica, inclusa la celebrazione dell’Eucarestia con la presenza dei fedeli. E questo ci ha messo subito in difficoltà, dal momento che l’Eucarestia è per tutti, sacerdoti e fedeli, fonte e culmine di tutta la vita cristiana.
Con generosità e inventiva e, perché no, con coraggio, ci si è dedicati a moltiplicare le occasioni di Messe in streaming, celebrazioni televisive in chiese vuote con celebranti solitari, a cominciare dallo stesso papa Francesco. Ma “guardare” la Messa non è celebrarla. Messe senza popolo, popolo senza Messa. Si è cercato di puntare sulla maturità e sulla responsabilità del popolo cristiano, sulla sua capacità di meditare e di accogliere e celebrare la parola di Dio e di pregare anche la Liturgia delle Ore. Cose che chiamano in causa, se non del tutto almeno in parte, la responsabilità dei laici e la fede nella dimensione sacerdotale propria del Battesimo.
Ma ora, lo dico in coscienza a tutte le istituzioni, è arrivato il tempo di riprendere la celebrazione dell’Eucarestia domenicale e dei funerali in chiesa, oltre ai battesimi e a tutti gli altri sacramenti, naturalmente seguendo quelle misure necessarie a garantire la sicurezza in presenza di più persone nei luoghi pubblici.
Una Chiesa che attraversa il deserto
A un tratto ci siamo trovati nel deserto, esattamente come è accaduto al popolo di Israele. Quante volte, nel mondo cristiano, ci siamo riempiti la bocca di questa parola, il deserto: «facciamo un momento di deserto!» Cioè prendiamoci uno spazio, un tempo di preghiera e solitudine. Ma si trattava di un deserto che avevamo scelto noi e che, alla fine, ci dava anche un po’ di gratificazione. Oggi, invece, ci troviamo in un deserto che non abbiamo scelto, che ci appare pieno di pericoli mortali e del quale non si vede ancora la fine. E la Chiesa condivide con l’intera umanità questa improvvisa condizione di deserto globalizzato. Come riuscire a viverla? Questo è il punto su cui può venirci in aiuto la parola di Dio: che cosa ci può dire la Scrittura in relazione al deserto? E al deserto dei nostri giorni?
Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?
Nel libro dell’Esodo si legge che, nel momento in cui Israele deve partire dall’Egitto, il Signore non lo conduce per la strada più corta, ma per quella più lunga (Es 3,17): perché non nasca nel popolo la tentazione di tornare indietro, alla schiavitù d’Egitto. Il deserto appare così fin dall’inizio come uno spazio, e insieme come un tempo di prova.
Tra tutti gli episodi narrati in Es 15-17 risalta in modo drammatico la protesta degli israeliti a Massa e Meriba («prova» e «tentazione»), a causa della mancanza d’acqua; l’episodio si conclude con una domanda radicale: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (Es 17,7). Il deserto sembra a Israele solo un vuoto spaventoso, che pare voler inghiottire il popolo che in tale solitudine ha iniziato a camminare: questo Dio così misterioso è davvero in mezzo a noi, oppure no? Oppure questo deserto è una maledizione della quale possiamo incolpare solo un cieco destino?
Israele chiama Dio in processo, quasi che sia Egli il colpevole della sua situazione. Mettere alla prova Dio significa voler fissare a Dio delle scadenze, imporgli i propri schemi, volere in realtà prenderne il posto. Significa stravolgere il senso stesso dell’esodo: Dio ha portato il popolo alla libertà, ma il popolo arriva ad accusarlo di essere lui il colpevole delle sue sofferenze: «Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto nel deserto per morire di sete?» (17,3).
«Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?». Questa non è la domanda di un ateo, ma il dubbio di un credente che non ha ancora pienamente compreso che il Dio di Israele è un Dio liberatore. E tuttavia la domanda rimane, con tutta la sua forza provocatoria e scandalosa. In questo momento di deserto che stiamo vivendo, la comunità cristiana deve saper abitare questa domanda, condividerla con tanti esseri umani che oggi rispondono «no, il Signore non è affatto in mezzo a noi, anzi, non c’è proprio alcun Signore in cielo».
La comunità cristiana deve saper camminare insieme con loro, anche di fronte a questo tipo di risposte. Ma per farlo è necessario un supplemento di umanità che non sempre noi cristiani riusciamo ad avere.
Dio, dove sei?
In queste settimane di pandemia, si ha l’impressione che nel mondo globalizzato la religione sia rimasta al margine: ho sentito con le mie orecchie questa obiezione, alla quale dovremo dare risposte convincenti. Ma continuiamo la nostra riflessione.
Dio, dove sei? La risposta a questa domanda rischia di essere terribile; del resto l’aveva già anticipata Nietzsche: Dio è morto, e noi l’abbiamo ucciso.
La Bibbia rovescia una tale domanda: «Dove sei?» è piuttosto ciò che Dio chiede all’uomo nel giardino (cf. Gen 3,9). La vera domanda che la Bibbia ci propone è così quella sulla nostra identità. Chi siamo noi? La risposta dell’uomo alla domanda di Dio è tragica: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10). L’essere umano si scopre improvvisamente fragile, debole, impotente. Sperimenta che, nel momento in cui ha preteso di porsi lui stesso come “dio” («Sarete come Dio», cf. Gen 3,5), tutto crolla: crolla il rapporto con l’altro (ed ecco le foglie di fico per nascondersi), si rompe il rapporto con la terra («spine e cardi produrrà per te»), si apre il cerchio della violenza, e il fratello uccide il fratello (Gen 4); la terra si corrompe e viene sommersa dal diluvio.
«Ho avuto paura». L’essere umano inizia a concepire Dio come un giudice terribile, pronto a punire la minima trasgressione; non lo coglie più come quella presenza amica che passeggia nel giardino alla brezza del giorno (Gen 3,8). «Dove sei?». Che ne è, uomo, di te? Che ne è del tuo delirio di onnipotenza e della tua illusione di poter realizzare tutto con le tue sole forze?
Di riflesso, alla luce di questa domanda sull’uomo, nasce una nuova domanda su Dio. Non tanto quella già ricordata: «Dov’è Dio?». Ma piuttosto: chi è Dio? In quale Dio crediamo, prima ancora di chiederci dove egli sia? Di chi stiamo parlando? Di Dio o del vitello d’oro?
Nel cammino nel deserto, la grande tentazione di Israele è infatti quella di costruirsi un dio su misura, il vitello d’oro (cf. Es 32). Non si tratta di un altro Dio, ma di quello stesso Yhwh che ci ha fatti uscire dall’Egitto, che però adesso vogliamo raffigurarci come a noi pare meglio. Con l’oro, appunto. Qualcosa che ci siamo acquistati, per cui abbiamo sudato. Un dio-idolo a nostro uso e consumo, che risponda alle nostre esigenze. Ebbene, quel dio non esiste, ce lo siamo appunto creati. E lo accusiamo poi di aver mandato la pandemia.
Non dimentichiamo che il cammino dell’esodo culmina nelle dieci parole ricevute al Sinai (cf. Es 20, 1-17); e la prima di queste parole non ci dice tanto dov’è Dio, quanto piuttosto chi Egli sia: «Io sono il Signore tuo Dio che ha fatto uscire te dalla terra d’Egitto, dalla casa delle schiavitù. Non avrai dèi stranieri davanti al mio volto» (Es 20,1-2). Il Dio biblico è un Dio che libera e che salva, che non tollera il male. È un Dio che scommette sulla libertà dell’essere umano e che vuole che sia l’umanità stessa a realizzare il suo progetto nel mondo.
Nel Nuovo Testamento, è il Dio di cui parla Gesù chiamandolo «abbà», padre, proprio nel momento della maggior sofferenza, di fronte alla prospettiva della croce (cf. Mc 14,36). Un Dio che Gesù incarna nella sua umanità e, in modo tutto speciale, nella sua compassione verso l’altro.
Se non ci poniamo correttamente la questione della “identità” di Dio, rischiamo seriamente che, una volta usciti da questa pandemia, il mondo occidentale rimanga ancor più convinto che la vera salvezza viene solo dalla scienza e che la religione può tutt’al più avere un ruolo subalterno, magari consolatorio, ai margini della razionalità. Per le Chiese cristiane è l’ora di puntare sulla maturità della fede.
Quella che oggi stiamo vivendo è certamente un’ora di crisi; “crisi” nel senso profondo della parola, dal greco “giudizio”: un’occasione cioè per operare un giudizio sulla realtà e sulla nostra vita, e per compiere delle scelte. È anche un’ora “apocalittica”, ma nel senso biblico del termine: non cioè “distruzione”, ma “rivelazione”. In quest’ora della storia, il Signore ci rivela per quel che veramente siamo, per quello in cui realmente crediamo. Mi auguro che questa “crisi” e questa “apocalisse” si trasformino in un’opportunità che ci aiuti a confidare meno nelle nostre forze, ad abbandonarci all’aiuto che viene dal Signore, e ad essere più solidali gli uni verso gli altri. Spero che ne nasca quella compassione universale radicata nella Misericordia di Dio che ci renda più umani, nella convinzione che l’ultima parola della vita non è né la sofferenza, né il dolore, né la morte, ma l’amore, la bontà e la Resurrezione.
La verità è che nel momento delle grandi prove ci vuole più fede. Dove la fede consiste non nel chiedere «dov’è Dio?» o «Dio dove era?», ma nell’accogliere Lui stesso, il Dio vero, che è il Dio della vita.
Sperando che questa riflessione possa essere utile a ognuno di noi nel cammino della fede pasquale, rinnovo il mio fraterno saluto e tutti benedico di cuore.
Perugia, 23 aprile 2020
Gualtiero Card. Bassetti
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