10.11.2019 – 32^ Tempo Ordinario: ll linguaggio della sofferenza
, Con 0 Commenti, Categoria: Editoriali, Liturgia,I mass media ci forniscono, ormai quotidianamente, informazioni sui progressi della medicina e della biologia. Non si può non constatare quanto la tecnologia abbia contribuito alla soluzione di tanti problemi diagnostici e terapeutici. Contemporaneamente però, come è facile constatare, all’interno della stessa medicina nascono problematiche a volte, a dir poco, inquietanti. Basta pensare all’uso indiscriminato di tranquillanti da parte di milioni di persone… Non intendo soffermarmi qui, su questo tema, peraltro molto interessante e attuale. Né tanto meno sui progressi della scienza o sulla problematica della medicina di oggi. Cercherò semplicemente di raccontare col linguaggio dell’esperienza quello che ho provato in trent’anni a contatto coi malati.
Le mie riflessioni si riferiscono quindi a persone che hanno un volto, a circostanze ben definite, ad avvenimenti umani, a rapporti intensamente vissuti. Il mio mondo è stato la malattia; la mia gente e il mio interesse sono stati gli ammalati. Con loro sovente ho stabilito un dialogo. Spesso il dialogo con l’ammalato si è realizzato quando era imprevisto e inaspettato. Dialogo non sempre fatto di parole.
Cosa si cela dietro il volto del malato?
Ma che cos’è la malattia? Chi è l’ammalato? Qual è il suo linguaggio?
Per “capire” che l’ammalato non è il numero del letto di una divisione ospedaliera, bensì una persona che ha un nome, ci sono voluti per me alcuni anni di esercizio professionale. Può sembrare una verità ovvia, ma interiorizzarla ha richiesto del tempo.
Successivamente la malattia, come presenza nel mondo, mi fece un’impressione enorme. Fu in seguito ad un viaggio nel ’64 in una vallata del Camerun di lingua inglese ai confini con la Nigeria. Le ulcerazioni, le piaghe di quella gente, erano il volto esterno, percepito con i sensi, di un male più profondo percepito con l’anima.
In quelle circostanze, ed in altre successive, sempre in Africa, ho preso coscienza di quanto il dolore sia una realtà che fa parte dell’uomo. Lo esprime per me un’immagine che non potrò mai più dimenticare e che mi si è impressa nell’anima: il volto di una madre che mi portò il suo bambino in fin di vita per una cardiopatia reumatica attiva.
Sempre in quegli anni, la morte di una epilettica caduta sul fuoco ed ustionata in un’ampia superficie del corpo, mi introdusse in una nuova dimensione dei rapporti tra gli uomini. Ricordo il profondo legame che questa ragazza creava intorno a sé. Legame con la famiglia, legame con tutti. La sua rassegnazione e la sua morte furono poi seguite da un’atmosfera di autentica religiosità. La ragazza e la sua famiglia erano di religione musulmana. Ci fu un’irruzione di Dio in questa vicenda, Dio che si accostò a noi come un unico Padre. Cadevano così pregiudizi inveterati ed emozioni negative e scoprimmo in un modo nuovo la fraternità universale.
Pietre vive nella costruzione dell’umanità
Tornato in Italia alla fine del ’67, la mia attenzione fu particolarmente attratta dalle persone afflitte da mali incurabili e da malattie croniche debilitanti. Nacquero, con gli anni, alcune convinzioni profonde.
Una prima riguarda le infinite sfumature del dolore. La sofferenza è sempre attuale: il dolore non è monotono. Ciascuno ha il suo dolore. Ogni dolore, come ogni uomo, è irripetibile.
Un’altra impressione forte è quella delle piccole attese quotidiane inserite nella grande attesa per l’appuntamento finale.
Ma la comprensione forse più importante nata in me in questi anni è la seguente: questi pazienti, denudati dalla sofferenza, mi sono apparsi come pietre vive nella costruzione dell’umanità e dei suoi valori. Il loro vestito è la sfinitezza, ma anche la trasparenza; essi sono portatori di una luce particolare, la luce di Dio.
Sempre più mi sono convinto che – come afferma Simone Weil – l’umanità, se fosse privata di tali persone, non avrebbe alcuna idea di Dio.
Nel silenzio di Dio la sua presenza
In alcuni casi poi si riscontra negli ammalati un’assenza totale di energie, un’evoluzione disperante del male, un’oscurità totale che occupa tutto il loro spazio psichico: un perché senza risposta. Eppure spesso ho visto che questi ammalati, con una piccola e misteriosa parte di se stessi, vanno al di là, sono orientati verso quella luce che non c’è.
In questi casi, quando tutta l’oscurità è stata consumata, un altro viene dall’esterno e li prende: si ha allora un contatto reale non con la luce di Dio (che non è avvertita), ma con Dio stesso. Il silenzio di Dio si rivela come una sua particolare presenza. Sembra che Dio si incarni in quelle esistenze ormai disgregate. Spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da Lui. Di fronte a loro si fa forte l’impressione che la sofferenza sia una porta di ingresso di Dio nel mondo.
Trattare il prossimo infelice con amore significa, in un certo senso, battezzarlo.
Un cenno a parte meriterebbe la situazione degli handicappati gravi, di certi anziani affetti da psicosi arteriosclerotiche avanzate, soprattutto dei malati mentali: persone in cui l’io psichico è ridotto, compromesso e qualche volta assente.
Colpite in una delle fondamentali dimensioni della loro dignità – la ragione -, spesso «parcheggiate» in luoghi non idonei, non ci sarà mai sufficiente attenzione per queste persone. Loro comunicano con un linguaggio essenziale di verità. Ci fanno pensare che la verità è terribile, che esige una purificazione interiore che rassomiglia alla morte. Essi non mentono, anche se privati dell’io, anzi proprio per questo. A contatto con la loro essenza psichica e con la loro tristezza, l’anima vibra in un modo particolare come se il loro essere sprigionasse la verità dell’uomo e sull’uomo. Anche se ci fanno riflettere sull’infelicità dell’uomo, essi ci attraggono verso uno stato di tenerezza che si può chiamare amore. Ci sentiamo purificati. E’ stato scritto da Simone Weil che «trattare il prossimo infelice con amore è come battezzarlo». Forse è proprio così.
Tra i diritti umani non dimentichiamo quelli dell’anima
Dopo queste riflessioni forse è possibile cominciare un discorso etico. Sono qui le vere radici dell’etica e della cultura.
Non vorrei si pensasse che si debba fare una cultura della sofferenza. Ci basta quella che già c’è nel mondo. E’ importante però tener conto che la sofferenza c’è e che essa è parte essenziale dell’identità dell’uomo su questa terra.
Certamente bisogna alleviare la sofferenza ed il male con tutte le energie di cui si dispone, ma è fondamentale capire e rispettare compiutamente il linguaggio della sofferenza.
Essa ci richiama i sentimenti e la vita dell’anima tanto quanto la fame e la sete ci richiamano le necessità del corpo.
E se le istanze sociali giustamente sottolineano i diritti fondamentali dell’uomo (come il lavoro, la casa, l’istruzione, ecc.), le istanze culturali dovrebbero sottolineare i diritti dell’anima.
Non credo infatti che esista cultura senza l’uomo intero. E nell’uomo intero c’è anche l’Assoluto, in cui la sofferenza si estingue.
E’ a partire da questo che la sofferenza può diventare punto di convergenza e di riflessione universali, elemento di aggregazione sociale. Ma perché ciò si verifichi occorre una civiltà d’anima senza precedenti.
(dott. Cosimo Calò)
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