Immagino i miei lettori capaci di ironia, in grado di saper sorridere della confidenza che m’accingo a condividere.
Qualche tempo fa, nel dormiveglia, mi pareva d’essere pompiere con tanto di casco e attrezzo tra le mani: un incubo probabilmente indotto dalle tante scene di terremoto frequenti nei telegiornali di queste sere. Una voce impercettibile attraversava il sogno: «Va’ e recupera tutto ciò che vive e non è perduto».
All’immagine partorita dalla fantasia – ché di fantasia si tratta – si è sovrapposta la silhouette di Francesco d’Assisi che sostiene una chiesa che vacilla come raffigurato nel celebre affresco giottesco, sogno di papa Innocenzo III con la parola che rende plasticamente la vocazione di Francesco: «Va’ e ripara la mia Chiesa». Accostamento il mio assolutamente impertinente, persino bizzarro.
Tuttavia, anche da una situazione surreale può scaturire un lampo che fa pensare. Il pensiero è questo. Abbiamo ereditato un’epoca di smarrimento; non tanto sul piano etico. Anche. Ma soprattutto sul piano del pensare. È un’epoca che siamo comunque chiamati ad abitare. Qualcuno parla di “notte culturale”; qualcuno denuncia cedimenti strutturali nell’antropologia e architravi dell’umanesimo che cedono. Cito Thomas Hardy, romanziere americano del ’900: «Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza». Siamo terremotati!
Ci sono orizzonti segnati dalla globalizzazione col rapido sviluppo di una società multietnica e multireligiosa in cui vanno in frantumi secolari paradigmi culturali che offrivano sicurezza.
Anche questi crolli condizionano il nostro equilibrio: concezioni, tradizioni, mentalità, che al confronto con altri modi di pensare non resistono più come prima. Subentra un senso di penosa incertezza, sofferenza che tanti, più o meno coscientemente, avvertono.
Eppure questo è il nostro tempo al quale, come diceva papa Benedetto, siamo debitori: «Chi non dà Dio, dà troppo poco». Dire Dio, dare Dio, ma come? Qual è il fondamento della speranza perché non risulti una pietosa bugia?
C’è chi spaventato si àncora alla cultura già appresa e non s’arrischia per nuovi cammini. C’è chi vorrebbe affrettare la nascita del nuovo come per incanto. C’è chi non volendo scomodarsi rinuncia a pensare e lascia ad altri la fatica del cambiamento. Mi pongo davanti all’inquieta ricerca con alcune risoluzioni interiori. Vedo all’orizzonte della mia coscienza valori perenni da non confondere con le mie strutture mentali, i miei schemi, le mie rassicuranti consuetudini. Sono valori che hanno un nome preciso: Gesù e il suo Vangelo.
Tengo ben fermo nella traversata il timone della mia navigazione seguendo la bussola: Gesù crocifisso e risorto. Sulla croce Gesù perde tutto: il suo posto in sinagoga, gli amici, persino la percezione della prossimità del Padre, Gesù l’abbandonato. Nel suo smarrimento vivo il mio smarrimento. Nel suo perdere il mio perdere. Nella sua oscurità la mia esperienza di vuoto. Devo saper perdere, gettare in mare il carico che appesantisce e salvare l’essenziale. È un’esperienza dolorosa, ma anche di fiducia e di liberazione, la stessa che sfocia nella resurrezione e che mi fa stare nel mio tempo senza fughe e senza catenacci. “Immaginare luoghi diversi ha portato molti fuori strada” insegnava l’aureo libro della Imitazione di Cristo. Con la bussola ben orientata continuo il mio cammino tra la gente con la gioia del Vangelo.
( ✠ Andrea Turazzi , vescovo di S. Marino e Montefeltro)