10.06.2018 – 10 ^ Tempo Ordinario: QUANDO IL SANTO «FA RIDERE»; IL BUONUMORE APRE IL CIELO
, Con 0 Commenti, Categoria: Editoriali, Liturgia,Il santo «è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (Evangelii Gaudium 122).
Un atteggiamento che si impara frequentando la scuola della leggerezza, impegnandosi nello sforzo, a volte davvero eroico, di limitare le ingombranti esigenze del proprio io, le pesantezze dell’egocentrismo.
Tanto l’egoismo è una corsa ad accumulare beni, prestigio, visibilità quanto il cammino verso la santità chiede di abbandonare gli orpelli luccicanti, di non prendere troppo sul serio onori, ricchezze, premi da copertina. E la meta della felicità, che consiste nel realizzare in pieno il disegno che Dio ha su di noi, si raggiunge più facilmente senza inutili zavorre.
Il santo è per così dire uno specialista nell’arte, ardua e impopolare, del togliere, del levare, del liberare spazi occupati dalle certezze effimere, per lasciare posto alla vita dello Spirito. È un profeta del ritorno all’essenziale, uno speleologo nelle profondità dell’uomo, alla ricerca di ciò che conta davvero. E questa capacità di andare oltre, gli consente di cogliere i semi di eternità già quaggiù, di vivere con il cuore proiettato a quello che ci attende dopo. Immerso nel presente sì, ma senza farsene travolgere, nella consapevolezza che ciascuno è una parte del mondo senza esserne il centro. Non a caso “umiltà” e “umorismo” hanno un’origine comune, vengono entrambi da “humus”, terra. Chi non si fa condizionare dalla superbia, chi non ne diventa ostaggio capisce che esiste qualcosa di più grande di lui, e del suo io. Di cui anzi impara a sorridere.
Il buonumore dei santi nasce proprio dalla capacità di non prendersi troppo sul serio, il loro pensare positivo dal sapere che ci attende un destino da risorti. (…) Ci sono momenti duri, momenti di croce, scrive il Papa in Gaudete et exsultate, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale che – sottolinea l’Esortazione Evangelii gaudium – «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto».
Il problema semmai si pone quando, anche nel cristiano, il peso della responsabilità confina lo sguardo dentro il perimetro del presente, quando le lacrime sono solo inchiostro per la disperazione e non vocabolario della vicinanza, della compassione.
Capita così che le chiese risuonino di inni pasquali mentre il viso di chi le frequenta è ispirato a un perenne Venerdì Santo. Per averne conferma basterebbe osservare la fila di chi si accosta alla Comunione nella Messa domenicale. «Dovrebbero cantarmi dei canti migliori, perché io impari a credere nel loro Salvatore – riassumeva sarcastico Nietzsche –. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più un aspetto da gente salvata».
(Riccardo Maccioni, da Avvenire 27.06.2018).
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