Dovevo sottopormi ad un intervento chirurgico. Nella mia stessa camera d’ospedale era stato ricoverato un giovane rumeno gravemente ferito: mentre attraversava i binari a bordo di un motorino nei pressi di un passaggio a livello incustodito era stato investito da un treno. (…) A meravigliarmi fortemente era il fatto che non si lamentava tanto per il dolore quanto per non poter più raccogliere pomodori ed aiutare così la famiglia rimasta in Romania.
(…) Ciò che più mi addolorava era costatare come nessuno si curasse di quel giovane. Non potendo starmene indifferente, ho sollecitato gli infermieri a chiamare un’assistente sociale e a contattare la famiglia. Ma la risposta è stata: È un clandestino… .
Allora ho chiesto a mia moglie di portare qualche indumento, sapone, succhi di frutta; intanto cercavo il modo di aiutare il ragazzo a contattare la famiglia. Bloccato com’ero in ospedale, non era facile, però pregavo, fiducioso che Dio non avrebbe abbandonato questo suo figlio nel bisognoso.
L’indomani alcune volontarie, passando tra le corsie, si sono informate se avevamo bisogno di qualcosa. Ho detto che per me non occorreva nulla; piuttosto si dessero da fare per quel ragazzo. E loro ad assicurarmi che ne avrebbero parlato con un collega più esperto in materia. Questi è riuscito a procurarsi il numero di telefono di un amico del rumeno il quale aveva sempre fatto da tramite con i suoi familiari privi di telefono. Il giovane ha potuto così avere un commovente colloquio con la madre che ormai lo credeva morto.
Ma la cosa per me più bella è stata il risvegliarsi attorno a lui della solidarietà: infatti un signore ricoverato nella nostra stessa camera, alquanto scontroso e chiuso in sé stesso, rendendosi conto durante la notte che quel giovane impossibilitato a muoversi aveva un bisogno, si è alzato e gli è andato vicino per aiutarlo. E anche fra il personale e i medici ho cominciato a notare un atteggiamento di maggiore attenzione verso di lui.(T.B.)