Padre Silvio Turazzi, missionario saveriano, ha oggi 76 anni.
Un’infanzia bella con due genitori amatissimi e cinque fratelli, uno dei quali, Andrea, è diventato vescovo di San Marino-Montefeltro. «Eravamo molto uniti, ci volevamo bene», racconta padre Silvio.
È sacerdote, a 26 anni. Dopo due anni di parrocchia entra nell’Istituto missionario dei saveriani, a Parma, con l’idea di vivere la sua vita sacerdotale in maniera itinerante e non stanziale, «un modo di guardare il mondo con gli occhi di Dio; camminare con lui per sanare, unire, riconciliare».
È in partenza per il Giappone quando, il 1° maggio ’69, un incidente d’auto gli spezza la spina dorsale, «l’incontro duro con la sofferenza». Nove mesi di ospedale. «In quei giorni il Signore mi ha ripetuto “Sono qui”. Mi aiutava a rimettermi a zero, a cogliere meglio l’essenziale». Senza spazio per la commiserazione, «cambiava la modalità, non l’orientamento della mia vita».
Nel ’71 è a Roma fra i baraccati dell’ Acquedotto Felice, con i quali condivide la battaglia per la casa. Insieme alle amiche Edda, che rimarrà sempre al suo fianco, fedele alla promessa che aveva fatto dopo l’incidente a cui aveva assistito, e Paola. «Abitavo sotto agli archi in uno spazio sufficiente solo per il letto e la carrozzina. Con altre centinaia di persone facevamo vita comunitaria. C’era molta umidità. I bambini si ammalavano». Ottenute le case e i servizi, padre Silvio dichiara concluso il suo lavoro e chiede di andare in missione in Africa. Il 3 dicembre ’75 parte per la Repubblica democratica del Congo, allora Zaire, insieme a Edda e Paola. A Goma, capoluogo del Nord Kivu, vive e lavora in un centro per disabili. «Ho pensato alla novità del sentirmi fratello in un contesto dove la gente è stata tante volte umiliata da una presunta superiorità razziale. Quando gli abitanti mi hanno visto dire Messa in carrozzina hanno detto: “Allora è uno come noi”». Realizza un piccolo villaggio della solidarietà, Muungano. «Una casa comunitaria di quartiere. Ci occupavamo di sociale, salute, alfabetizzazione. Abbiamo creato laboratori di artigianato, falegnameria, cucina, cucito. Ci è sembrato che la popolazione apprezzasse il timbro personale della nostra presenza, il desiderio di migliorare il luogo in cui vivevamo, l’aver lasciato la nostra terra per vivere in spirito di fraternità».
Pensava di finire lì la sua vita, padre Silvio, ma nel ’92 una grave malattia lo costringe a tornare in Italia e, dopo un altro tentativo di ritorno in Congo, a rientrare definitivamente, alla fine del ’93. Nel ’95, un’altra dura prova. In viaggio verso Loreto con le amiche di sempre, un’auto si abbatte sulla loro macchina. Paola muore. Di nuovo l’attribuzione di un senso al dolore.
«Il dolore non è un incidente, è un fatto legato alla vita, che si apre attraverso di esso. È una realtà che rappresenta un invito a tenersi per mano, l’attesa di qualcosa di più che avverrà oltre la dimensione spazio-temporale che stiamo vivendo. Il paradiso è l’ultima risposta».
A Vicomero inizia la terza fase, con la costituzione di una famiglia allargata. Un piccolo agglomerato con tre case: in una lui, Edda, sette ragazzi e due donne di diversa nazionalità; nelle altre, due famiglie.
Un giardino con l’orto e una piccola cappella in legno. «Essere un gruppo disperso nel popolo era il progetto di vita che Edda e io avevamo fatto ancora giovani. Una consacrazione diversa rispetto a quella tradizionale, una presenza religiosa meno strutturata, più elastica e discreta. Una piccola comunità che prega e affronta insieme la quotidianità, con tutti i problemi che questo comporta».
Qui il sacerdote e Edda gestiscono un mercatino del riciclo e un laboratorio d’artigianato. Con i proventi di queste attività, la pensione da invalido civile e l’ aiuto di amici, continuano a sostenere Mungaano, a Goma, e aiutano i ragazzi a terminare la scuola e nella ricerca di un lavoro. Una vita sobria, fedele a un altro “precetto” del progetto di vita: tendere alla povertà intesa come libertà dalle cose e ricerca di ciò che conta.
Oggi, la consapevolezza di essere alla fine del suo percorso.
«Sento di passare a un’esperienza più forte del mio limite, di scoperta del nulla di sé. Un passo verso l’infinito».
Quel giorno, ne siamo sicuri, Silvio si alzerà dalla carrozzina, inforcherà la sua bicicletta e pedalerà fino a perdersi nell’orizzonte.