A colloquio con padre Mauro Gambetti, il custode del Sacro Convento di Assisi che il Papa ha voluto fra le tredici nuove porpore. «Quando l’ho saputo, ho iniziato a ridere …».
«Sono un po’ a digiuno di questi temi…». Scherza padre Mauro Gambetti. E i «temi» di cui parla sono i compiti e le prerogative di un cardinale. «Nella mia vita di frate minore conventuale non ce n’era di motivo per occuparmene…», sorride il custode del Sacro Convento di Assisi con uno stile che potrebbe essere chiamato “da giullare di Dio” e che evoca la letizia di francescana memoria.
Sarà cardinale padre Gambetti, dopo oltre un secolo dalle ultime due porpore conventuali. Non sapeva nulla prima che papa Francesco annunciasse i nomi delle tredici nuove berrette all’Angelus di domenica 25 ottobre. «Mi sembra di essere nato un’altra volta – racconta sempre con il sorriso –: nel senso che come un bambino devo prendere le misure con questo nuovo mondo, capire, orientarmi».
A cinquantacinque anni sarà uno dei più “giovani” porporati della Chiesa. Preoccupato? «Forse apparirò un po’ incosciente, ma non lo sono. Credo che in capo a tutto ci sia la mano di Dio. E, quando facciamo nostra la volontà del Signore, la risposta è sempre sì, è sempre l’obbedienza». Diventerà anche vescovo il religioso originario di Castel San Pietro Terme nel Bolognese. «Perché così prevede il codice di diritto canonico e così mi ha detto papa Francesco quando l’ho chiamato per ringraziarlo sentitamente di questo “scherzo da Papa”».
Nel Sacro Collegio spiega di voler portare «lo spirito di minorità». Ripete più volte che la risposta a ogni forma di estremismo, come quello che ha seminato morte a Nizza e a Vienna, è «la fraternità». E, quando riflette sull’immigrazione, si affida al teorema dell’incompletezza di Gödel – quasi un richiamo alla sua laurea in ingegneria meccanica – per dire che «la crescita della complessità in una società, anche a seguito dei flussi migratori, è fattore di sviluppo».
Padre Gambetti, quando e come ha saputo di essere cardinale?
Dopo l’annuncio del Papa all’Angelus. Ero a colloquio con una persona. E il cellulare ha iniziato a squillare. Se sono immerso in una conversazione, evito di rispondere. Fra le chiamate vedo quelle a ripetizione del vescovo di Assisi. Allora dico: «Scusami, devo capire ciò che succede». Era in corso anche la preghiera per la pace nella Basilica Superiore per l’anniversario del celebre incontro voluto qui ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986. Congedo la persona. Vado per richiamare il vescovo ma squilla di nuovo il telefono. Rispondo e sento dirmi: «Congratulazioni, complimenti». E io: «Scusa?». Così scopro che il mio nome era fra quelli dei nuovi cardinali. Sono trasalito pensando anche ad alcune cose che mi erano state dette ma che non avevo minimamente collegato a questo fatto. Allora mi sono fermato un attimo e sono scoppiato a ridere.
Adesso arriverà l’ordinazione episcopale.
La stiamo definendo. Sarà domenica 22 novembre, ossia la settimana precedente al Concistoro che è in programma sabato 28. Vorrei che la celebrazione si svolgesse ad Assisi.
Farà entrare lo spirito di san Francesco nel Sacro Collegio?
Porterò lo spirito di servizio, del farsi ultimi. È lo spirito evangelico della lavanda dei piedi. Vorrei restare limpidamente francescano, ossia minore, per aiutare con lealtà il Papa. È ciò che il Pontefice si aspetta dai cardinali: essergli di supporto nel discernimento e nelle azioni. Aggiungo che il nostro Ordine è marcato da un convinto ossequio al Pontefice, chiamato fra l’altro a fare sintesi nella Chiesa. Anche questo tratto potrà contrassegnare in senso francescano la mia missione.
Il Papa si ispira al Poverello. Quali tratti emergono con forza?
Il primo è la semplicità. Una semplicità che è lampante nel suo stile e nei suoi gesti ma che è anche congiunta alla profondità. Del resto san Francesco riusciva a tenere insieme lo spessore dei contenuti con l’accessibilità. Un’altra dimensione che unisce il Pontefice al santo è la vicinanza alle povertà del mondo, il forte afflato di prossimità, l’attenzione alle storie esistenzialmente sofferte della gente. Ancora. La modalità dialogica nei confronti di chi la pensa o crede diversamente: tutto ciò si traduce in rispetto, accoglienza e in ultima istanza pace.
Sulla tomba del patrono d’Italia papa Bergoglio ha appena firmato l’enciclica Fratelli tutti. E lei lo ha accolto.
Considero questo documento il vertice del suo magistero. Benché già la Laudato si’ avesse una precisa matrice francescana, l’ultima enciclica ne ha una ancora più evidente. Si tratta di un testo che può cambiare la storia. Perché ha al centro la fraternità universale che riguarda il rapporto con ogni uomo ma anche con l’intero creato. In un mondo che tende a essere per pochi e a escludere molti, che esaspera l’individualizzazione, che parcellizza l’uomo fino alla dispersione, c’è una sola grammatica che consente di costruire un futuro nuovo dove la felicità sia concreta: ed è la grammatica della fraternità.
Gli attacchi di Nizza e di Vienna sono l’antitesi dell’incontro di san Francesco con il sultano avvenuto 800 anni fa. Come favorire il dialogo, anche con l’islam?
C’è bisogno di assumere tutti insieme una prospettiva fraterna che implica rispetto e poi rigetto della prevaricazione. Il prossimo è una ricchezza anche se è diverso da me. Se mancano la valorizzazione delle differenze e la solidarietà, non potremmo mai avere società giuste e in pace. Le contrapposizioni, a volte ideologiche, hanno effetti tragici. In ogni scontro non ci sono né vincitori né vinti: a perdere è sempre l’uomo.
Immigrazione e accoglienza. Quali sfide?
Sogno una comunità globale in cui ciascuno possa avere il suo posto ed esprimere i propri talenti. Ecco, la Chiesa ha il compito di ripetere che tutto ciò è possibile. Poi mi stupisco di certe posizioni ottuse sul meticciato e sui flussi migratori. In matematica il teorema di Gödel ci dice che un sistema rimane autosufficiente finché non si aggiungono variabili nuove. Quando questo avviene, il sistema è costretto a trovare nuove risposte che consentano uno sviluppo di comprensione. Il fatto che arrivino donne e uomini di altre culture fa allargare la prospettiva ed è un potenziale di crescita. Il che non significa essere acritici sull’accoglienza: sono necessarie risposte che siano adeguate alle nuove variabili della storia. E fra queste c’è anche l’esigenza di far restare le persone nelle loro terre d’origine e quindi incentivare lo sviluppo di tutti i Paesi.
(Da Avvenire 07.11.2020)