Un traguardo importante, per tutta la medicina italiana, quello dell’altra notte all’ospedale delle “Molinette” di Torino. Il professor Mauro Salizzoni ha effettuato su un paziente di 55 anni, malato di cirrosi epatica, un trapianto di fegato che sulla cartella clinica porta la sigla nOLT 3000. Significa: tremila trapianti dal 1990, da quando cioè l’illustre chirurgo ha avviato la Clinica di Trapianto epatico nell’ospedale torinese. Un record, non soltanto italiano, ma europeo.
È il caso anche di dire che l’allievo batte i maestri, perché Salizzoni – lungimiranti le aziende universitarie che lo permisero – andò a perfezionarsi in Belgio dal 1986 al 1989, con altri assistenti e infermieri, all’Università Cattolica di Lovanio, presso la Clinica Saint Luc diretta dal professor Otte.
Tremila trapianti in ventisette anni rappresentano un numero impressionante, se si considera che l’intervento non è tra i più semplici, ma stanno anche a significare l’abnegazione, il sacrificio e la disponibilità di un medico che in pratica ha vissuto 27 anni della sua vita pronto a correre in sala operatoria, indossare il camice e i guanti, per salvare la vita a una persona.
Tremila trapianti però danno l’idea rassicurante, in chi è costretto a subirlo, che questo intervento sia una «cura normale». Non di routine, ma quasi.
Ho avuto modo di incontrare il professore Salizzoni a metà o quasi di questa pista lunga tremila trapianti. Sulla mia cartella clinica, quando Salizzoni sostituì il mio fegato malandato, hanno poi messo la sigla nOLT 1145. Avveniva nel 2004. Lo vidi la prima volta nel suo studio. Era la mia ultima speranza. Come è stato per questi anni la speranza per altri tremila pazienti.
Ero terrorizzato all’idea di sottopormi a questo intervento, pur sapendo che alle “Molinette” il rischio di mortalità in sala operatoria è tra i più bassi in Italia. Lo 0,3 per cento. Cioè niente. Quasi più rischiosa un’appendicectomia!
Non mi tranquillizzarono però le statistiche, quanto il modo di porsi di questo chirurgo, quando analizzò il mio caso e decise di inserirmi nella lista d’attesa delle “Molinette”.
Leggeva assorto le carte che gli avevo portato. Un silenzio assoluto. Io e mia moglie ci guardavamo. Salizzoni prese la lastra di una tac e la poggiò sul pannello luminoso per interpretarla meglio. Si girò verso l’infermiera che era nella stanza e le chiese brusco: «In quante posizioni si può leggere una tac?» «Quattro!», rispose lei, sottolineando l’ovvietà della cosa. In quella mia tac erano indicati due tumori al fegato e non è che avessi tanta voglia d’indovinelli, tuttavia senza pensarci risposi «Otto!». Mi diede ragione: «Bravo! Ha ragione lui!»
Neppure Salizzoni aveva voglia di indovinelli. Stava facendo semplicemente una cosa importantissima e difficilissima. Mi stava rassicurando. Cominciava a dirmi che il trapianto era già una tecnica operatoria che non doveva spaventare più come una volta. Fino a quella mattina, come tanti di noi, avevo un concetto della medicina antiquato e sbagliato. Medicina significava per me cura farmacologica: pillole, iniezioni e così via. O anche una chirurgia che si limitasse a eliminare o a riparare un determinato organo. Ma il trapianto, poi!
Guardava le lastre della tac e diceva qualcosa sottovoce, poi più distintamente aggiunse quasi a se stesso: «Ma sì, facciamo un piccolo trapianto e risolviamo il problema!»
Ammutolii. Guardai mia moglie. Lei fissò me. Interrogai con gli occhi l’infermiere che con un gesto sembrò volesse dirmi: «È fatto così!»
Si fosse trattato di cavarmi un dente, non sarebbe stato così tranquillizzante e confortante. Mi aveva detto che il trapianto era ed è una cura come tante. Che non è un mostro. Che è anzi l’inizio di una nuova vita. Lui ha fatto rivivere tremila persone. Chissà quanti di loro hanno detto che ci sono otto modi per leggere una tac.
Giovanni Ruggiero in Avvenire martedì 18 luglio 2017
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