Aspettarlo docilmente, fiduciosamente, scacciando fantasmi, fanatismi e clamori; custodendo, soprattutto nei periodi di prova, un silenzio carico di speranza. È così che ci si prepara all’ultima e più grande prova della vita, la morte. Ma prima ci sono le prove del momento, c’è la croce che abbiamo adesso, e per la quale chiediamo al Signore la grazia di saper aspettare lì, proprio lì, la sua salvezza che viene.
Ognuno di noi ha bisogno di maturare in questo. Davanti alle difficoltà e ai problemi della vita è difficile avere pazienza e rimanere sereni. Serpeggia l’irritazione e spesso arriva lo sconforto. Può così capitare di essere fortemente tentati dal pessimismo e dalla rassegnazione, di vedere tutto nero, di abituarsi a toni sfiduciati e lamentosi. Nella prova nemmeno i bei ricordi del passato riescono a consolare, perché l’afflizione porta la mente a soffermarsi sui momenti difficili. E ciò accresce l’amarezza, sembra che la vita sia una catena continua di sventure.
A questo punto, però, il Signore imprime una svolta, proprio nel momento in cui, pur continuando a dialogare con Lui, sembra di toccare il fondo. Nell’abisso, nell’angoscia del nonsenso, Dio si avvicina per salvare, in quel momento. E quando l’amarezza raggiunge il culmine, all’improvviso rifiorisce la speranza. Nel vivo del dolore, chi sta stretto al Signore vede che Egli dischiude la sofferenza, la apre, la trasforma in una porta attraverso la quale entra la speranza. È un’esperienza pasquale, un passaggio doloroso che apre alla vita, una sorta di travaglio spirituale che nel buio ci fa venire di nuovo alla luce.
Questa svolta non avviene perché i problemi sono scomparsi, no, ma perché la crisi è diventata una misteriosa occasione di purificazione interiore. La prosperità, infatti, spesso rende ciechi, superficiali, orgogliosi.
Questa è la strada alla quale ci porta la prosperità. Invece il passaggio attraverso la prova, se vissuto al calore della fede, malgrado la sua durezza e le lacrime fa sì che noi rinasciamo, e ci ritroviamo diversi rispetto al passato. Un padre della Chiesa scrisse che «nulla più della sofferenza induce a scoprire cose nuove» (S. Gregorio di Nazianzo, Ep. 34). La prova rinnova, perché fa cadere molte scorie e insegna a guardare oltre, al di là del buio, a toccare con mano che il Signore salva davvero e che ha il potere di trasformare tutto, perfino la morte. Egli ci lascia attraversare delle strettoie non per abbandonarci, ma per accompagnarci. Sì, perché Dio accompagna, soprattutto nel dolore, come un padre che fa crescere bene il figlio standogli vicino nelle difficoltà senza sostituirsi a lui. E prima che sul nostro viso spunti il pianto, la commozione ha già arrossato gli occhi di Dio Padre. Lui piange prima, mi permetto di dire. Il dolore resta un mistero, ma in questo mistero possiamo scoprire in modo nuovo la paternità di Dio che ci visita nella prova, e arrivare a dire, con l’autore delle Lamentazioni: «Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca».
Saper attendere in silenzio – senza chiacchiericci, in silenzio – la salvezza del Signore è un’arte, sulla strada della santità. Coltiviamola. È preziosa nel tempo che stiamo vivendo: ora più che mai non serve gridare, suscitare clamori, amareggiarsi; serve che ognuno testimoni con la vita la fede, che è attesa docile e speranzosa. La fede è questo: attesa docile e speranzosa. Il cristiano non sminuisce la gravità della sofferenza, no, ma alza lo sguardo al Signore e sotto i colpi della prova confida in Lui e prega: prega per chi soffre. Tiene gli occhi al Cielo, ma ha le mani sempre protese in terra, per servire concretamente il prossimo. Anche nel momento della tristezza, del buio, il servizio.
(Dall’omelia di Papa Francesco nella messa per i cardinali e vescovi defunti nel corso dell’anno)