Un medico coraggioso, in Sierra Leone, ha perso la vita per aver affrontato, cosciente del rischio, l’epidemia di Ebola più feroce che abbia mai contagiato l’Africa. Il suo nome è Sheik Umar Khan, aveva 39 anni ed era musulmano.
Ebola è un virus terribile, che procura febbre alta e tremende emorragie, con una mortalità altissima: ciclicamente, in diverse zone, ha flagellato l’Africa negli ultimi anni. Stavolta si parla di oltre 600 morti, la stragrande maggioranza dei quali in Sierra Leone; là Sheik Umar Khan – da mesi impegnato senza soste nell’assistenza alle vittime del virus – è visto come un eroe nazionale per il suo impegno.
Il medico-coraggio, sottoposto fino a ieri a terapia intensiva in un ospedale della capitale, non era uno sprovveduto. Al pari di un suo collega – il direttore dell’ ospedale di Monrovia, falciato nei giorni scorsi dal morbo – sapeva di mettere in gioco la vita, accostandosi ai malati di Ebola. Ciononostante non si era tirato indietro.
Come lui, non si erano tirati indietro numerosi ‘martiri della carità’ che, in anni recenti, si sono distinti nel servizio consapevole a malati infettivi (e quindi potenzialmente pericolosi).
Penso a Matthew Lukwiya, direttore sanitario dell’ospedale di Gulu, in Uganda del Nord: nel 2001 fu l’ultimo ad abbandonare il suo posto, infettandosi nel curare un infermiere, dopo che altri 11 colleghi erano stati colpiti mortalmente da Ebola per essersi prodigati nella cura dei malati.
Nella primavera del 1995 era toccato a sei suore delle Poverelle di Bergamo: una dopo l’ altra, nell’arco di poche settimane, morirono contagiate dall’allora sconosciuto virus, nell’ ospedale di Kikwit in Congo: pochi mesi fa si è aperto, a Bergamo, il processo diocesano per la loro beatificazione.
Non Ebola, ma l’allora non meno insidiosa (e misteriosa) Sars falciò, il 29 marzo 2003 , Carlo Urbani: avendo intuito la gravità della ‘polmonite atipica’, il medico marchigiano si immolò, di fatto, salvando migliaia di vite umane.
Spesso scandalizzati da storie di malasanità, faremmo bene a ricordarci di questi (e altri) medici coraggiosi che hanno interpretato e interpretano la professione come un’autentica vocazione. Fino a dare la vita.
Gerolamo Fazzini
In Avvenire del 30.07.2014